Quando usiamo la parola complessità pensiamo spesso a qualcosa di complicato, difficile da capire, un groviglio di elementi che si intrecciano senza un ordine. In realtà il termine porta con sé un significato molto più profondo. Complessità non vuol dire confusione, ma riconoscimento che la realtà è fatta di parti interconnesse che non possono essere ridotte a un solo livello di spiegazione.

Il pensiero moderno per secoli ha cercato di semplificare: dividere, analizzare, isolare i fenomeni. È la logica del riduzionismo che ha dato enormi risultati ma che, al tempo stesso, rischia di perdere la ricchezza delle relazioni. È proprio contro questo limite che filosofi e scienziati hanno introdotto la prospettiva della complessità. Edgar Morin ci invita a pensare in modo complesso, cioè capace di collegare e non solo di separare. La sua opera ci ricorda che ogni fenomeno vive di relazioni e che il sapere deve essere transdisciplinare, aperto, dialogico.

La scienza della natura ci ha mostrato lo stesso: Ilya Prigogine con le strutture dissipative ha fatto vedere come dall’apparente caos possano nascere nuovi ordini, come l’irreversibilità del tempo sia parte integrante dei sistemi fisici. Con Isabelle Stengers ha difeso un’idea di scienza meno dogmatica, più attenta all’emergenza e alle narrazioni che produciamo per comprendere il mondo. Francisco Varela ha portato la biologia a riflettere sull’autopoiesi, cioè sulla capacità dei sistemi viventi di produrre e mantenere se stessi, mentre Lynn Margulis ha mostrato che la vita evolve non solo per competizione ma anche per cooperazione attraverso la simbiosi.

Ci sono poi le prospettive che allargano lo sguardo: James Lovelock con l’ipotesi Gaia ha immaginato la Terra come un grande organismo vivente in grado di autoregolarsi. Stephen Jay Gould ha difeso la contingenza e la discontinuità nell’evoluzione, rifiutando ogni visione lineare e predeterminata. Douglas Hofstadter ci ha introdotto alle ricorsioni della mente con le sue esplorazioni tra logica, arte e coscienza, mentre Karl Pribram ha elaborato l’idea di un cervello olografico, capace di conservare e rielaborare informazioni in maniera distribuita.

Anche le scienze sociali e umane hanno contribuito. Paul Feyerabend ha criticato l’illusione di un unico metodo scientifico e difeso la pluralità dei saperi. Immanuel Wallerstein ha descritto il mondo come un sistema complesso fatto di interdipendenze economiche e storiche. Paul Watzlawick ha mostrato come la comunicazione sia un intreccio dinamico in cui non si può non comunicare e in cui ogni interazione cambia l’insieme. Jerome Bruner ha spiegato che la mente apprende narrando e che l’educazione deve riconoscere questa trama di significati. Alberto Munari e Donata Fabbri hanno tradotto la sfida della complessità in chiave pedagogica, invitando a ripensare formazione e apprendimento.

Per capire meglio basta guardare a due esempi concreti. Il primo è il cambiamento climatico: non si spiega con una sola causa ma con l’intreccio di processi atmosferici, industriali, economici, politici e culturali. Le emissioni di CO₂ non sono solo un fatto tecnico, dipendono dai modelli di produzione, dalle abitudini di consumo, dalle scelte politiche e perfino dai valori culturali. Ecco allora che il clima diventa un caso tipico di complessità: non c’è una soluzione semplice, perché ogni intervento modifica il sistema nel suo insieme, generando nuove retroazioni e nuove dinamiche. Un secondo esempio è la comunicazione digitale: un messaggio pubblicato online non resta isolato, entra in reti di interpretazioni, condivisioni, fraintendimenti e manipolazioni che trasformano il contenuto stesso. Anche qui la logica lineare causa-effetto non basta più: servono categorie che tengano conto della circolarità e dell’imprevedibilità.

Infine autori come Ervin Laszlo e John Barrow hanno provato a interpretare l’universo stesso come un sistema complesso, dove ordine e disordine, necessità e possibilità si intrecciano in modi che sfidano la nostra immaginazione.

Parlare di complessità significa dunque riconoscere che il mondo non è mai dato una volta per tutte, che ogni fenomeno nasce dall’incontro di fattori diversi, che il sapere cresce non chiudendo ma collegando. Significa abbandonare la sicurezza del pensiero lineare per aprirsi a una logica dell’interazione e della relazione. Non è un invito al relativismo o alla confusione, ma piuttosto una chiamata alla responsabilità: saper pensare complessamente vuol dire accettare l’incertezza, convivere con la molteplicità, costruire connessioni.

Ecco allora il cuore del messaggio: la complessità non è un ostacolo ma una risorsa. È il modo in cui la realtà vive e cresce, ed è la sfida che la conoscenza, la politica, l’educazione e la scienza devono oggi accogliere.